La chiesa abbaziale è situata fuori dall’abitato di Sezzadio a mezzogiorno al fondo di un lungo viale di platani sulla sinistra della strada provinciale per Castelnuovo Bormida e Acqui Terme.
La storia:
Il monaco fra Jacopo d’Acqui nella sua “Cronica Imaginis Mundi” descrisse con queste parole l’avvenimento miracoloso che portò Liutprando ad edificare, nei pressi del borgo di Sezzadio, una basilica dedicata a Santa Giustina:
“Et ibidem transiens Liudprandus rex qui modo dicitur rex Aliprandus bonus et devotus christianus, voluit sub quadam arbore in meridie quiescere in loco ubi nune est monasterium Sancte Iustine. Iste enim Liudprandus semper secum equitando portabat reliquias de illis Sancte Iustine in quadam piscide alba eburnea et durm dormire vellet ibi. Piscidem qum sacris reliquiis deposuit ad ramum unius arboris et post quietem volens pissidem accipere saltavit ad aliumramum et de ramo in ramum ex predictis rex cognoscens dei voluntatem. Ibi ecclesiam edificavit in honorem Sancte Iustine et sacras reliquias ibidem ordinavit.”
Il re Liutprando è stato re dei Longobardi e re d'Italia dal 712 al 744; verso l'anno 722 avvenne la traslazione della salma di Sant'Agostino da Ippona (nord Africa) a Pavia. Liutprando a capo di molte milizie transitava per Sezzadio, percorrendo la via Aemilia Scauri per accompagnare il trasferimento del Santo; durante il lungo viaggio s'accampò a mezzodì dell'abitato di Sezzadio poco distante dal fiume Bormida, precisamente in quella estesa pianura chiamata tuttora, per quel fatto, Prato Regio.
Le tende regali e quelle del suo seguito furono dispiegate nel luogo ove ora sorge la chiesa di Santa Giustina. Il Re devoto al Cattolicesimo per premunirsi dai pericoli a cui poteva incorrere cavalcando, portava appeso al collo un gioiello d’avorio contenente una reliquia di Santa Giustina.
La cronaca vuole che il monarca spogliandosi si togliesse anche la reliquia e l’appendesse al ramo di una quercia. Quando andò per riprenderla, essa gli sfuggiva di mano, saltando di ramo in ramo. Allora il Re comprese essere quello un segno col quale la Santa prediligeva quel luogo e desiderava che ivi rimanesse; il Sovrano ordinò che in quel luogo si costruisse una cappella dedicata a Santa Giustina e che vi si deponesse la sacra reliquia.
La presenza dell’edifico sacro viene confermata da un documento del 1030 relativo all’atto di fondazione del monastero omonimo da parte del marchese Ottoberto nipote di Aleramo, che edificò il complesso monastico accanto alla basilica liutprandiana ampliandolo e dotandolo di arredi, suppellettili e possedimenti nonché provvedere ad insediarvi una comunità di monaci benedettini.
Nel 1192 papa Celestino III emise una bolla con cui il pontefice pose l’abbazia e i dei beni di esclusiva proprietà sotto la sua protezione dichiarandola, di fatto, dipendente unicamente dalla Santa Sede e sgravata da imposte normalmente dovute alle autorità locali; la bolla venne diretta dal pontefice all'abate Doniotto e ai monaci presenti e futuri dell'abbazia.
Il secolo XV iniziò per l’abbazia con una crisi che la vide in stato di semiabbandono con periodi caratterizzati dall’assenza di monaci residenti tuttavia nel 1434 l’unico abate rimasto, Antonio Lanzavecchia, chiedeva ed otteneva dalla Santa Sede l’unione di Santa Giustina alla Congregazione di San Gerolamo della Cervara con lo scopo di ottenere supporto nell’esecuzione dei lavori di restauro del complesso.
Esperienza di breve durata, terminò infatti nel 1460, ma che fu causa di deturpanti interventi che alterarono gli originari caratteri alto medievali ottoniani dell'abbazia. L'ultimo abate regolare, Giovanni di Fermo, morì nel 1478 e da quell'anno fu affidata in commenda da Papa Sisto IV all’arciprete Bernardino Petracoli.
Con il 1581, anno della morte di Raffaele Corte si concluse il periodo dei commendatari.
All’inizio dell’anno 1582 il Papa Gregorio XIII sancì l’unione dell’abbazia alla Congregazione degli Oblati di San Sepolcro di Milano.
Nel 1612 avvenne la traslazione delle reliquie di Santa Giustina dall’abbazia al San Sepolcro di Milano.
Nel 1810 un decreto napoleonico pose fine alla fondazione monastica che, con le sue terre, venne ceduta gratuitamente ai veterani napoleonici che abitarono per pochi anni l’abbazia ma sufficienti per compiere non lievi danni.
Con il 1815 l’abbazia di Santa Giustina tornò sotto il potere dei Savoia, scacciarono i veterani e ripresero possesso dei beni che vennero incamerati dal Regio Economato.
Nel 1817 la chiesa venne ulteriormente devastata con l’attuazione del progetto per utilizzare il grandioso spazio interno dividendolo orizzontalmente in due piani per ricavarne diversi ambienti con la costruzione di volte e murature: il piano terreno venne destinato a deposito di attrezzi agricoli e quello superiore a granaio.
Il 19 aprile 1863 l’ingegnere Angelo Frascara, deputato del neonato Parlamento Nazionale, acquistò l’intero complesso edilizio ed i terreni in una asta pubblica. L’ing. Frascara mise in atto molti interventi di miglioramento dei terreni dell’abbazia dotandoli di edifici rurali e cantine; il perimetro del complesso abbaziale a cui è stato aggiunto un grandioso parco venne interamente cintato da un muro. L’intervento più importante fu la costruzione di una grande villa in corrispondenza della porzione meridionale dell’abbazia; due delle maniche perimetrali del chiostro vennero quindi inglobate nel nuovo edificio.
Nel 1888 Giuseppe e Giacinto Frascara, figli di Angelo, scomparso tredici anni prima, attuarono opere di ampliamento della villa portandola alle dimensioni odierne.
Nel 1912, Giuseppe (divenuto senatore) si preoccupò di mantenere l’efficienza dei terreni dell’abbazia introducendo moderni sistemi colturali e di allevamento.
La chiesa mantenne fino al 1955 la sua destinazione agricola, quando la contessa Idarica Gazzoni Frascara, figlia del senatore, intraprese una vasta opera di restauro per riportare la chiesa alle sue forme originali senza trascurare il recupero degli affreschi.
Architettura:
La chiesa in stile romanico è divisa in tre navate, terminanti con tre absidi semicircolari che incrociano un grande transetto con volte a crociera dotate di costoloni gotici, impostati su semicolonne dalla decorazione bicroma a riquadri che si aggiungono ai preesistenti pilastri rettangolari. La pianta della chiesa è a croce commissa, cioè nella forma di una T; lunga 35 mt e larga 17 mt che diventano 27 in corrispondenza del transetto.
La costruzione è completamente in laterizio.
La facciata tripartita a salienti interrotti è scandita, come pure tutta la superficie esterna in muratura, da una serie di strette lesene piatte che salgono fino alla fascia di archetti binati che corona la sommità sull’intero perimetro.
Nella prima metà del XV secolo al di sopra della prima campata occidentale della chiesa venne costruita la torre, come evidenziato dalla disposizione delle lesene e degli archetti in facciata.
In corrispondenza degli absidi il coronamento è completato, sopra a detti archetti, da fregi a denti di sega e dentelli.
La luce penetra all’interno della chiesa grazie a un numero estremamente ridotto di finestre, strette monofore quasi sempre a tutto sesto con doppia strombatura collocate lungo il perimetro e in corrispondenza dell’abside maggiore; molte di esse sono frutto del restauro del 1956 in cui vennero tamponate le numerose aperture praticate sui fianchi dell’edificio e vennero riaperte quelle originali preesistenti laddove eliminate.
Il presbiterio dell'abside centrale risulta rialzato di circa 2 mt e ad esso si accede mediante una scalinata dalla navata maggiore.
Mediante una scala che dà sul braccio meridionale del transetto si accede alla cripta posta sotto al presbiterio.
Si tratta di un ambiente quadrangolare di sette metri per lato, absidato e coperto da una serie di voltine a crociera che poggiano su sei colonnine, una poligonale, le altre cilindriche senza base e con capitelli smussati semplicissimi e su semicolonne addossate alle pareti.
Queste sono di particolare interesse perché si presentano scandite da una serie di archi ciechi su lesene che non giungono fino a terra, ma si impostano su un alto zoccolo.
Il motivo ripete quello già visto in uno degli ambienti della cripta della Sacra di San Michele in Val Susa.
Il pavimento della cripta è un grande mosaico realizzato in “opus tassellatum” bianco e nero ad intrecci con disegni geometrici e fioroni.
Nel mosaico è presente una iscrizione che attesta l’esecuzione dei lavori di restauro e ornamento fatti eseguire dal marchese Ottoberto nell’XI secolo: “Otbertus marchio huius domus domini reparator et ornator”.
Le reliquie in origine dovevano essere conservate nella cripta, ciò si deduce in quanto sono presenti due piccole aperture, “fenestellae confessionis”, poste ai lati della scalinata di accesso al presbiterio che oltre a renderle visibili dalla chiesa collegano simbolicamente i fedeli ai resti sacri dei Santi senza necessariamente recarsi all’interno della cripta.
All’interno della chiesa sono presenti molti affreschi tardogotici di scuola lombarda (dei secoli XIV e XV) sulle pareti laterali e principalmente sul presbiterio; quelli maggiormente conservati sono quelli che decorano il catino e la volta dell’abside maggiore.
Nel catino absidale è rappresentato un Cristo Giudice in una mandorla iridescente affiancato da scene della Passione e del Giudizio Universale.
Nei registri sottostanti sono riprodotte scene mariane e cristologiche separate da finte mensole con effetto tridimensionale.
Tra gli innumerevoli affreschi sono degni di nota quelli raffiguranti un angelo annunciante sormontato da eleganti architetture gotiche, un cavaliere in armatura raffigurato in atteggiamento di preghiera ed i quattro evangelisti.